Corso Garibaldi a Vazzano in due cartoline illustrate, l’una degli anni quaranta, l’altra fine anni sessanta. Due documenti che col loro linguaggio fotografico dicono assai di più di un lungo discorso: la prima mostra la bella strada dritta e larga, fiancheggiata da case dai balconi adorni di graste, popolata di gente — uomini, donne, bambini, chi seduta dinanzi al portoncino, chi va e chi viene, chi a crocchio conversa con gli amici -; l’altra drammaticamente vuota, salo in fondo, al centro della vasta piazza Umberto I, quattro virgolini neri indicano altrettante presenze umane.
Vazzano è una dei tanti centri calabresi che hanno pagato con un forte esodo degli uomini dei campi la trasformazione della nazione italiana da società prettamente agricola a società industriale. Impassibile fare il calcolo di quanti vazzanesi, alla fine degli anni quaranta, agli inizi degli anni cinquanta ed anche in seguita hanno abbandonato il paese per cercare altrove, all’estero soprattutto ed anche nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova, un lavoro meno pesante e meglio retribuito.
Il fascismo, cori la sua politica autarchica, aveva bloccato il progresso industriale italiano; ma la fine della guerra e la vittoria delle armate alleate avevano aperto la via alle importazioni di prodotti dall’America trasformando le abitudini degli italiani e provocando una maggiore richiesta che in passato di prodotti industriali costringendo le fabbriche, per la maggior parte dislocate al nord, ad un maggiore sforzo produttiva e, ovviamente, competitivo. La terra, quindi, quella frammentata in minuscoli appezzamenti e lavorata con sistemi ancora primordiali, non riusciva a far concorrenza all’industria in via di rapido sviluppo, né ripagava in giusta misura chi a lei chiedeva i mezzi necessari di sussistenza. Fu casi che la classe contadina e bracciantile ed anche, in larga misura, quella artigianale messa in crisi dalla produzione in serie e a prezzi assai inferiori offerta dalle industrie, non trovò altro scampo che abbandonare il campicello e la botteguccia, e cercare altrove possibilità di vivere civile e progredito.
Anche prima dell’avventura fascista le classi rurali del sud erano emigrate, scacciate dalla terra dalla prepotenza patronale, dalle crisi agricole, dai terremoti. Anche allora ad accogliere “le tonnellate umane” scaricate dai poni dai “vascelli della morte” entro i quali avevano viaggiato per decine e decine di giorni ammassati come capi di bestiame, fu l’America, gli Stati Uniti, l’Argentina, il Brasile, il Canadà. E fu senz’altro benefica, quell’ondata emigratoria perché aveva alleggerito la pressione esercitata dalla disoccupazione e nello stesso tempo aveva restituito sangue alla finanza locale grazie alle rimesse. Non basta. Inoltre «Essa si risolse in una rarefazione nei luoghi d’origine e quindi in un notevole rialzo dei salari per coloro che restavano, in una modificazione dei contratti agrari favorevoli ai contadini e nella conseguente formazione di una classe di coltivatori proprietari».
Per avere l’idea di come Vazzano si sia dissanguata di forze produttive, abbia perso braccia ed anche menti (per lo più, queste, emigrate in patria) basta visitarlo nel mese di agosto, quando, sospinti dalla nostalgia per «il natio borgo selvaggio» e ubbidienti al richiamo del sangue, dei parenti, fanno momentaneo rientro per il breve tempo di una vacanza gli uomini e le donne che ora hanno cittadinanza argentina, statunitense, canadese, tedesca, francese, australiana. Una folla cosmopolita, che si ritrova sulla stessa piazza a parlare lo stesso dialetto e rievocare gli stessi morti, gli stessi fatti del passato. Sono magari membri della stessa famiglia, fratelli, e sorelle, che il destino ha sparso nei tre continenti, che hanno diverse esperienze e che pure sono rimasti vazzanesi integrali così come lo erano il giorno in cui salirono sulla sgangherata corriera che li avrebbe portati alla più vicina stazione ferroviaria.
Ai primi degli anni Ottanta, che sono quelli che ci hanno visti impegnati nella presente pubblicazione, si notava però una sorta di inversione di tendenza.
«A Variano — scriveva Antonino Mirenzi, assessore all’edilizia sulle pagine di un numero unico – a differenza dei paesi vicini, in questi ultimi due anni si è fermato il numero degli emigrati, anzi alcuni di questi tornano. Dobbiamo essere capaci di sfruttare questo ritorno, perché la loro esperienza, acquisita all’estero, ci sarà utile».
Nella stessa nota Mirenzi dava altre informazioni che vale la pena di riportare. Aggiungeva, infatti:
«A Variano il numero delle nascite giunto ad un limite minimo nel 1980, sta lentamente crescendo, il numero dei nati nel 1983 è superiore a quello dei morti. Questi dati segnano una svolta nella vita del paese, voglio dire che si sta creando un movimento di lavoro capace di far rimanere e crescere la popolazione».
Ruolo importante, secondo l’assessore, lo svolgeva in questo movimento di lavoro l’edilizia: «La gente si è potuta costruire una casa, le risorse degli emigrati invece di essere depositati negli Uffici postali vengono investite aumentando certamente i valori via via che passano gli anni. Il numero dei muratori è aumentato, si vanno formando delle piccole imprese, i giovani fanno apprendistato imparando il mestiere e da grandi avranno più garanzie per il posto di lavoro. Variano è oggi un cantiere edilizio, le case crescono a vista d’occhio, il paese si va estendendo in tutte le direzioni, la parte nuova supera la vecchia. Questa crescita ha determinato certamente dei problemi, opere di urbanizzazione (strade, luce, fogne) che devono essere completate o iniziate. E per queste cose il Comune ha già i finanziamenti ed i progetti approvati.
Come si vede – concludeva Mirenzi – il movimento di lavoro che si è creato è enorme, non ci siamo fermati davanti alle denunce e continueremo perché consapevoli che il lavoro segnerà la rinascita e lo sviluppo di Variano».