Questa è la storia del Bizzarro come si racconta a voce e come è¨ scritta nel manoscritto dell’Abate Don A. Fuscà.
I baroni De Sanctis, erano una nobile famiglia vazzanese, ricchi per quei tempi, parenti di gente famosa e potente, possedevano diversi terreni e un palazzo che, sorgeva nell’area della casa Fazzalari e assumeva una forma quadrata aperta sul davanti, e all’interno con un cortile dove si affacciava la lunga fila di balconate a forma di chiostro. Il palazzo fu distrutto dal terremoto del 1783.
Questa famiglia dei baroni è andata distrutta completamente, gli ultimi discendenti emigrarono chi in Sud America, chi altrove.
Verso la fine degli anni venti un Antonio De Santis tornato dall’Argentina, in misere condizioni economiche, era mantenuto della famiglia Fuscà a Vazzano. Identica la sorte di Terisina De Santis che ancora si ricorda in paese, vagabonda e accattona fu vista le ultime volte per le strade di Catanzaro.I baroni dominavano l’intero paese e la loro volontà era legge, al punto tale che quando qualcuno commetteva un delitto e si rifugiava nella loro proprietà, nessuno poteva toccarlo.
Francesco Moscato chiamato in paese “U Vizzarro”, il Bizzarro, per il suo carattere sventato e capriccioso, era un giovane intraprendente al servizio dei baroni De Sanctis, dai quali godeva di molta stima.
Nella casa baronale viveva Felicia, l’ultima figlia della famiglia, di cui Francesco si era invaghito perché guardato da lei con particolare attenzione.
I fratelli De Sanctis, uno avvocato e un’altro amministratore del patrimonio familiare, intuendo quello che poteva nascere tra i due giovani, proibirono fermamente a Felicia di vedersi e di parlare con Francesco, il quale sapeva di tale divieto.
La bella Felicia per vendicarsi dei fratelli trovò il modo di incontrarsi con il Moscato che ancora frequentava il palazzo, e tra i due nasce così una intensa relazione amorosa.
Se non ché dopo alcuni mesi, l’avvocato De Sanctis secondo quanto afferma l’Abate Fuscà nel suo manoscritto, “si accorse che la sottana della sorella sul davanti era più corta che di dietro”.
Francesco pur disposto a sposare Felicia, venne invece allontanato in malo modo dai De Sanctis, e trattato come l’uomo che venuto dal basso aveva macchiato l’onore della casa.
Un giorno il Vizzarru per vendicarsi dell’affronto ricevuto tese un agguato nello stesso palazzo baronale all’avvocato, sparandogli contro. Nell’agguato ferì invece uno dei servi, mentre la mancata vittima alla quale erano accorsi in aiuto il fratello e altri servi, reagiva contro l’assalitore. Francesco colpito violentemente a bastonate e non riuscendo a sopportare più quelle pene, si finge morto e posto s’um cataletto viene portato in chiesa, nell’attesa di essere sepolto nella fossa comune.
Durante la notte, Francesco tentò la fuga, ma catturato dai guardiani dei baroni e legato mani e piedi, la mattina seguente fù condotto a Soriano, e da lì a Catanzaro per il processo.
La sentenza lo vede condannato a quattro anni di galera da scontare nel penitenziario di Procida.
Nel carcere trovò il tempo necessario per pensare alla sua vendetta. Uscito dal carcere per una amministia generale voluta da Ferdinando IV, secondo quanto scrive Sharo Gambino nel suo articolo apparso sul “Giornale di Calabria” nel marzo 1973, organizzò una ventina di galeotti e prese la via della Calabria rubando, predando e aumentando strada facendo la sua banda.
Giunto nei pressi di Vazzano prima di compiere la sua vendetta Francesco fu visto qualche volta in paese davanti al palazzo dei De Sanctis.
Alcuni andarono a Soriano per avvisare i gendarmi ma il Moscato astuto, scappò via. Non passò molto tempo, che Francesco si fece di nuovo vivo in paese insieme alla sua banda. Come scrive Francesco Fazzalari nel suo bel poema dialettale (u Vizzarru – Pellegrini ed. Cosenza 1969), i briganti travestiti da fratelli della Congregazione del SS. Rosario, improvvisarono una processione, simile a quella del giovedì Santo. Appoggiato a un bastone c’era un uomo che portava una croce, ai lati due giudei con una verga in mano e un’altro che pungendolo lo incitava a camminare.
Era costui un povero uomo di S. Onofrio che aveva osato parlare male dei briganti. Tornati fuori del paese si diressero verso la località “a cerza i cinqu”, arrivati che furono il povero uomo cadde per terra senza forza e i birbanti non contenti lo finirono a calci e pugni.
I De Sanctis intanto avevano deciso di rifuggiarsi a Soriano dove avevano degli amici, ma Francesco li prevenne.
Era la prima domenica di Ottobre, e la gran parte della popolazione era in chiesa per la festa della Madonna del Rosario, quando il Vizzarru alla testa della sua banda entrò nel paese, e portatosi alla porta della chiesa, nella quale sapeva di trovare i suoi mortali nemici, sparando gridò: Puòpulu bassu fora! La gente spaventata prese a correre, e quando la chiesa fu completamente sgombra Francesco entrò e vi trovò i due fratelli De Sanctis terrorizzati dalla paura. Gli corse incontro Felicia chiedendogli di essere clemente: Fàllu pè mia, Franciscu!, ma egli per tutta risposta la buttò in terra, dicendo: A sentenza nescìo.
L’avvocato cercava scampo facendosi scudo di una popolana, ma il Vizzarru lo prese e mettendolo con le spalle al muro gli sparò contro a breve distanza, facendolo stramazzare. Uno dei colpi sbucò un quadro della Madonna appeso al muro.
Quanto all’altro fratello avrebbe voluto usargli clemenza, ma non fece in tempo a dettare l’ordine, perché un brigante di San Nicola da Crissa lo aveva già sgozzato. Sazio e placato Francesco cor prese con la forza Felicia e la condusse con se, nella sua tana Filatò, nella contrada “Burdo” in territorio di Vazzano, a vivere con lui la vita brigantesca.
La banda del Vizzarru si ingrandì e i delitti e le scorribande aumentarono. Ferdinando IV si servì anche di lui per combattere i francesi, e diverse volte lo invitò alla sua corte in Palermo.
Si disse, che arrivavano dei rinforzi per le truppe francesi e passavano dal “Passu di gattu”. Vizzarru si nascose con la sua banda, e tese un agguato a quei soldati, compiendo una strage.
Il generale Manhes, inviato in Calabria da Gioacchino Murat, gli dava una caccia spietata, mettendo sul suo capo una grossa taglia.
In un tranello tesogli dallo stesso generale Manhes, Francesco ha avuto la fortuna di non trovarsi nella sua tana.
I francesi trovarono invece Felicia e la portarono con loro a Soriano e poi a Catanzaro. Di lei non si seppe più niente a Vazzano, dove non tornò mai più.
Si racconta che uno studente di medicina l’abbia vista a Napoli in un’ospedale, al reparto degli incurabili dove probabilmente morì.
Scoperto il rifugio di Filatò, il Vizzarru si trasferì nel bosco di Rosarno continuando li le sue gesta feroci, fatti di orrendi crimini che terrorizzavano intere popolazioni.
Sulla ferocia delle azioni del Vizzarru si raccontano diversi episodi. Come quando usava dare in pasto ai suoi cani, ufficiali francesi, trucidati barbaramente, abituando in questo modo i mastini a dare la caccia agli uomini.
Talvolta uccideva anche senza motivo, come quella volta che sparò ad uno della sua stessa banda per provare l’efficacia della polvere, che come si vantava, i suoi amici inglesi gli avevano mandato.
Nel bosco di Rosarno, Francesco incontrò una bella ragazza che portò con sè, e con la quale ebbe una bambina.
Una notte mentre la piccola creatura si mise a piangere Vizzarru svegliatosi sentì dei rumori. Saltò dal letto, prese la bambina, gli girò il collo, soffocandola, e la diede poi in pasto ai suoi mastini.
Compiuto il barbaro delitto il capobrigante rimase per la prima volta sconvolto, per l’inumano atto che aveva compiuto. Fu questo crimine, che probabilmente affrettò la sua imminente fine.
Nelle notti che seguirono la moglie ebbe modo di maturare il terribile pensiero di vendetta.
Una sera che Francesco febbricitante si mise a letto, la donna prese il fucile appeso al muro, lo mise all’orecchio del Vizzarru, facendo esplodere un colpo che rimbombò per tutta la casa.
Poi con un coltello gli staccò di netto la testa, che avvolta in un sacco la consegnò all’autorità del comune più vicino, chiedendo anche il denaro della taglia, promessa a chi avrebbe ucciso il famoso brigante.